gginelli.info | new york city |
L'america non è mai come te l'aspetti. Non so chi l'abbia detto, ma nel caso non ci abbia pensato ancora nessuno, lo dico io... New York City non fa accezione: dove posi lo sguardo ti assale un potente senso di déjà vu, che non è una sensazione spiacevole, ma quasi sempre è legato a un vago senso di inaspettato. Colpa di troppi film visti nella tua vita, ti dici. Oppure colpa del fatto che NYC è veramente un luogo in cui tutte le genti hanno portato un pezzo del loro mondo e il risultato è il patchwork, a volte insensato a volte geniale, che affascina e attrae di questa metropoli. L'america non è mai come te l'aspetti, nemmeno quando ti aspetti di trovare quello che trovi. |
Segni di modernità |
Arrivi all'aereoporto JFK scombussolato dal rollio del volo. Ti dici che lì è sempre così; hanno fatto una città in uno dei luoghi più assurdi del mondo, invaginata in un territorio che è affacciato su un lembo dell'oceano perennemente incazzato, dove gli aerei devono cabrare dentro correnti che lo vogliono portare da quelche parte. Be', insomma, arrivi e atterri perché poi i piloti sono tutti bravi a fare il loro lavoro e ti metti in coda per entrare negli State. "Put your left hand there", che potresti anche fare finta di non capire, ma hai già visto quelli prima di te a farlo e c'è poco da scherzare. Gli americani, nei loro aeroporti, da un po' di tempo non sono più molto cordiali, a dispetto dei manifesti rassicurati appesi dappertutto. Per cui metti la mano su quell'affare verde luminescente, prima il pollice e poi le altre quattro dita, e dopo la sinistra metti la destra. Alla fine guardi anche fisso un po' in alto et voilà: l'America adesso ha preso da me qualcosa che la mia patria in cinquant'anni non è mai riuscita a carpirmi. |
|
Strade e palazzi hanno un ché di decadente, difficile da spiegare in modo razionale. È una sensazione sottile, impalpabile; la città è satura di tecnologia, nascosta dietro le pieghe classiche che decennio dopo decennio hanno plasmato le sue forme, ma non la vedi. Vedi facciate di edifici che non esiti a definire vecchi, in alcuni quartieri vetusti, e non è quello che ti aspetti dall'America. Ma questa è New York; qui la tecnologia ha cominciato presto a farsi sentire. Il Fuller Building , con la sua forma a prua che ha contribuito non poco ad attribuirgli il nome di Flatiron Building, è al 175 della Fifth Avenue, nel distretto di Manhattan; è costruzione triangolare che si erge tra la 23rd St., la 5th Ave. e Broadway, di fronte a Madison Square. Cosa c'entra con le tecnologia, uno chiede. Anzitutto quando nel 1902 è stato edificato era il grattacielo più altro al mondo, anche perché è stato il primo a essere costruito a Manhattan. E poi il nome Flatiron è per via della forma, che se nelle intenzioni del suo progettista Daniel Burnham poteva richiamare la prua di una nave, a tutti poi è sembrato un "ferro da stiro". Colpa dell'ascensore a vapore che gli hanno installato dentro. |
||
Ecco, il vapore: la rete di teleriscaldamento è stata attivata a NYC nel 1882, e alla fine del IXI secolo il teleriscaldamento era tecnologia allo stato puro. Una tecnologia che continua a riscaldare la città donandole un'impronta retrò unica al mondo: fumi di vapore che escono dai tombini, che la fanno sembrare una vecchia città fumosa, ma che in realtà è uno dei segni più tangibili della modernità. Così come di modernità si deve parlare per tanti piccoli servizi di cui è infarcita la giornata del newyorker medio. Prendi un ascensore, ad esempio, rischi di percorrere la traiettoria che ti separa dalla tua destinazione a una velocità di circa 1 sec al piano. Il che vuol dire che dopo due-tre piani inizia a deglutire per compensare nell'orecchio medio l'effetto del repentino aumento di altitudine. La stanza del mio hotel - tra la 52nd e la Broadway - è al 14° piano e la reception all'8°: tempo medio di percorrenza 5" e 30 decimi. E non è l'ascensore più veloce di NYC; quello del Marriott Marquis a Time Square ti porta da terra al 48° piano nello spazio del tempo che la tua gola riesce a fermare la risalita dello stomaco. E lì sopra altro impatto con la modernità, perché il ristorante gira su sé stesso e blandamente puoi godere della vista di tutta Manhattan. |
||
La modernità prende strade strane in ogni parte del mondo; ognuno ha la sua e c'è chi te la sbatte sotto il naso in ogni angolo e vicolo e poi c'è NYC che la concentra solo in alcuni aspetti della città. |
||
Strange people
|
E poi c'è Time Square: uno degli angoli più famosi del mondo, uno dei più visitati, ma anche uno dei più piccoli. Ciò che affascina di questo angolo di NYC è pensare che in così poco spazio ci sia una così alta concentrazione di tante cose differenti: spettacolo, musica, antropologia, tecnologia, informazione, visione... La 7th Ave e la Broadway si incontrano e più o meno lì nasce e si trova Time Square, che si sviluppa in altezza più che come superficie. Già questa è un anomalia: pensare di fare una piazza dove passano due sole vie, per un europeo è cosa strana. Per cui vai a vedere e ti accorgi che la Broadway è come una sciabolata sghemba che va dalla terraferma a fin quasi la punta di Manhattan e ti chiedi il perché della sua esistenza in questo angolo di universo fatto di strade perpendicolari, ordinate e simmetriche in modo ossessivo. Chiedi e scopri che la Broadway è più o meno l'antico sentiero indiano che tagliava Manhattan, ovvero "isola con molte colline"; ed infatti è lunghissima, taglia tutta l'isola e arriva fino ad Albany, la capitale dello stato di New York. È forse lo stesso sentiero che nel XIV sec. percorre Giovanni da Verrazzano arrivando dalla terraferma e gli permette di scoprire un insediamento indiano della tribù Algonchino più o meno dalle parti di dove adesso c'è il Greenwich Village. Bravi gli americani: poi si sono anche ricordati di lui e gli hanno dedicato il ponte alla foce del fiume Hudson e che collega due quartieri di NYC: State Island e Brooklyn. |
|
Quasi all'angolo con la 43nd e la Broadway c'è uno Starbucks Coffee (a NYC c'è ne sono qualche centinaio) dove ti siedi a bere la tua pinta di caffè e guardi fuori la gente che passa. Se non lo fai, non sei un vero newyorker; e se lo fai sentendoti a disagio, vuol dire che non lo sarai mai. Quello che vedi è gente normale e pensi: è gente che abita, vive, lavora, litiga e ama a New York. Vedi passare di tutto, ma non le stranezze che immaginavi. Perché le stranezze scelgono posti diversi che non Time Square, forse; oppure perché NYC le stranezze le ingloba, le amalgama e le uniforma con tutto il resto, così che uno non se ne accorge. La gente di NYC è come noi: urla, parla, è gentile, è scortese, proprio come noi. Le vere differenze sono nelle dimensioni: sono più veloci, hanno più freddo, sono più grassi, sono più cortesi, sono più antipatici. Raramente hanno mezze misure. Ti avvicini a una commessa in un negozio per pagare e quella ha già chiesto se ti può essere utile ancora prima che appoggi la merce sul banco; enti in un grande magazzino (Macy's o Viictoria's Secret poco importa) e la commessa ti accoglie sorridendo: "how you doing today?" o qualcosa di simile. È formale, non si aspetta certo che tu le rispondi niente di più che "well, thanks", ma comunque ti mette di buon umore. La gente di NYC è come noi: non rispetta il rosso dei semafori e i pedoni schizzano tra le street e le avenue, fra i boulevard, come le nuvole nel cielo di Manhattan che corrono spinte dal vento incessante della baia. Le persone che vivono a NYC sono come noi, solo che sembrano più giovani. I vecchi non passano per Time Square, o se lo fanno sono nascosti nelle limousine. Dentro e fuori dai negozi solo giovani e messaggi per loro: luccicanti, sgargianti, petulanti nella loro monotonia, convincenti con il loro ipnotismo. |
||
Passare per Harlem ti fa assaporare un pezzo unico di NYC: qualcuno te lo può raccontare anche bene, ma per capirlo davvero ci devi immergere il naso e lo sguardo. Stai sul marciapiedi davanti all'Apollo Theater una lattiginosa e fredda mattina e ti assale proprio questo pensiero: sapevi di trovarlo lì, ma comunque ti stupisci di vederlo dal vivo. Poter tornare indietro nel tempo e fermarti negli anni giusti, potresti vedresti entrare tutta una serie di artisti neri, dalla Fitzgerald a Jeames Brown, che ancora nessuno li conosce. In questo quartiere di NYC povertà e sporcizia non sono più così evidenti come qualche decennio fa, ma percepisci la loro presenza nascosta guardandoti bene in giro. Ti vengono in mente tanti luoghi milanesi; le case, i negozi e le strade sembrano quelle di un mondo ben differente da quello che hai visto girando per Manhattan. I negri di Harlem sono forse gli stessi che trovi poi a Manhattan, ma quando sono qui assumono tutti un aurea quasi mistica, che trascende il puro fatto religioso. Incontri Alì su un marciapiede della 5th Ave che fa lo sbruffone per venderti il suo disco, il suo rap, ma a trovarlo qui ad Harlem sarebbe certo meno sbruffone, starebbe di sicuro più in campana. Come tutti quelli che incontri. Nelle loro funzioni, che per noi possono essere estremamente paradossali, la partecipazione è energica e visionaria; e non è solo che cantano, suonano e ballano come dei pazzi, ma sono gli sguardi che si scambiano a stupirti, sono le esclamazioni alle semplici e petulanti frasi che recita il pastore. La funzione religiosa è un fatto sociale di coraggio, di affermazione dell'individualità. |
||
Cultura
e arte
|
Il rapporto tra arte, cultura, società e NYC può essere considerato molto intimo e a un certo punto inscindibile. Ben diverso che da noi, intendo. Il rapporto della città con gli artisti di qualsiasi genere è talmente stretto che negli anni nessun quartiere della città si è visto escluso. La presenza di artisti che possono considerarsi "newyorker" puri non e minore di quelli che vi sono transitati. Uno si chiede se ha senso essere artisti e non essere a NYC; non è solo un fatto di moda se vi è una così alta concentrazione di loro in pochi chilometri quadrati. |
|
A parte quelli che vivono e operano a NYC, poi ci sono quelli nei musei. Arrivando dall'Europa, uno non è entrando in un edificio come il Solomon R. Guggenheim Museum rimane a bocca aperta per quello che vede; dando per scontato che, vivendo per esempio in Italia, quando vai in giro e non hai messo delle fette di salame sugli occhi, quello che trovi nel famoso museo di arte moderna e contemporanea di New York sulla 5th Ave non può impressionarti più di tanto. A parte l'edificio, naturalmente, l'ultima opera di Frank Lloyd Wright che volle creare una simbolica ziggurat rovesciata nella quale il visitatore ammira le opere esposte percorrendo un sistema di scale a spirale che consentono sempre di guardare indietro sul cammino percorso. Credo però che gli Americani diano il meglio di sé in altre situazioni, come ad esempio nel Museo Americano di Storia Naturale (visita sito) che è il più grande al mondo, nel quale uno può perdersi anche per alcuni giorni (a patto che possa spendere 28 dollari ogni volta). Quattro piani più un sotterraneo in cui gli americani mettono in mostra il loro concetto di comprensione delle culture umane, del mondo della natura e del nostro universo. Non è una nota polemica, ma gli americani sono fatti così: tutto quello che è fuori, è FUORI. Se vuoi vieni e ti integri (come hanno fatto tutti del resto), e ti danno tutti gli strumenti che vuoi per farlo al meglio. Visto che i tuoi genitori, nonni o altro vengono da fuori, arriva anche il momento che tu provi il desiderio di capire meglio le tue radici, Allora ti faccio il museo dove puoi vedere anche le origini delle diverse entnie che compongono l'America e che sono i tuoi avi. E poi c'è il planetario, che in realtà è il Centro Rose per la terra e lo spazio (Rose Center for Earth and Space) dove anzitutto vi è una profusione di tecnologia che mixata con la capacità americana nel costruire show efficaci, lascia quelli come me con la mandibola spalancata per quello che è riuscito a vedere e gustare. Senza parole. |
||
Manhattan |
Alla fine uno gira per Manhattan per godersi un bagno di quel lembo d'America. Non so perché l'isola si porti dietro il fascino che ha. Sta di fatto che passeggiando per Manhattan la nostra memoria si fissa grazie alla continua presenza di quei luoghi nel nostro quotidiano; il senso di dejà-vu a NYC, ma soprattutto a Manhattan, è presente in ogni luogo in cui si posa lo sguardo. E tutto è esattamente come ti aspetti che sia; prendi un taxi e basta alzare la mano che si ferma, sali e ti sembra di essere sulle montagne russe, ma in meno di dieci minuti il pakistano di turno (o il giapponese, l'indonesiano che sia) ti porta da Central Park a SeaPort, sulla punta dell'isola. Ti godi un vero hamburger in un dinner al porto di NYC e poi ti immergi in Wall Street per risalire fino a Time Square. Strada facendo incontri il mondo intero: passi per Chinatown e Little Italy, ormai fagocitata interamente dalla presenza asiatica, entri nel Greenwich Village e passeggi guardando negozi, acquistando qua e là e ti dispiace di non avere più soldi, perché qualsiasi cosa costa meno che non a Milano. Alla fine della scorribanda nella quale hai rischiato l'indigestione di colori, odori, sapori di una Manhattan che sapevi essere così, ma che quasi non ci hai creduto nemmeno a viverla, sai almeno una cosa in più di prima: che potresti perderti in questa città, ma non per questo sentirti perso. È più una sensazione, ma hai il vago sospetto che in una città come questa ci possa essere comunque una chance per chiunque. Uno parte da NYC e si porta a casa un senso di decoroso degrado, palpabile in tutto quello che la città gli ha offerto nei giorni di permanenza. Un po' come aver fatto visita a un vecchio amico che non cambia mai. |
|
Video Gallery |
||
© 2009 by Giorgio Ginelli per testi e immagini.